Palazzolo Acreide nel medioevo


Approfondimenti culturali

Storia di Acre, prima colonia greca di Siracusa

di VINCENZO TEODORO

Narra Michele Amari che nell’estate dell’825 Ased-Ibn-Forait in marcia su Siracusa, dopo aver percorso “La strada romana della costiera meridionale, oltrepassò il Salso e imboccò la strada dei monti, giungendo a Palazzolo, l’antica Acri” e qui riscuoté una prima taglia di cinquantamila soldi d’oro. E mentre riorganizzava l’esercito, i cittadini d’Ortigia dal canto loro allestivano le difese per resistere all’assedio. Ma le cose non andarono per il verso giusto per il cadì, che ferito in battaglia, morì sul campo senza raggiungere la meta.

È uno dei casi in cui l'ellenica colonia si trovò coinvolta nelle sorti della madrepatria che, come tutta la Sicilia, florido granaio, era considerata facile terra di conquista ricca di monumenti e di preziose riserve. A partire dalla seconda guerra punica, vi attinsero i pretori e i proconsoli dei vari governi pre-costantiniani, con l'unica eccezione forse di quello di Alessandro Severo (222-235 d. C.), giovane mistico che sognava di unificare le religioni, sotto il quale gli stati e i villaggi vassalli, e quindi anche Acre, vissero un periodo di relativo benessere. Nel 395, con la divisione dell'impero romano, la Trinacria fu assegnata ai Bizantini, che cominciarono a dissanguarla. Il fenomeno si perpetuò per tutto il Basso Impero, specialmente con le invasioni barbariche, dai Franchi di Prodo (278-280) agli Ostrogoti di Odoacre, che proprio ad Ortigia lasciarono una propria guarnigione (491). Siracusa restò sempre nel mirino dei predatori: occupata da Belisario, nel 663 vi s'insediò Costante II con la sua splendida corte e la nominò Capitale dell'Impero d'Oriente. Ma l'improvvido bizantino, che a Roma aveva manomesso le ultime tegole di bronzo dorato al Pantheon, fu fiscalmente duro, intransigente e vessatore, e un giorno lo trovarono stecchito nella vasca da bagno piena d'acqua bollente (668). Corse precipitoso per vendicarlo il figlio Costantino IV, ma tutto finì lì, la Capitale fu riportata a Costantinopoli e i siracusani rimasero soli in balìa delle frequenti incursioni arabe, per sfuggire alle quali cercarono riparo nelle campagne, nel cimiteri sotterranei, o catacombe, e nelle necropoli. I sepolcri a baldacchino o a tegurium scavati nelle latomie dell'Intagliata e dell'Intagliatella, che sono una delle attrazioni principali delle antichità acrensi, probabilmente furono adibiti a ricoveri durante quelle persecuzioni. Il 21 maggio dell'878 Siracusa venne assediata dai Musulmani dalle parti della vecchia Cattedrale (il Tempio di Minerva adattato a basilica) ed espugnata con crudeltà e stragi degne di un novello Marcello, che nel 212 non risparmiò la vita di Archimede né quella di donne e bambini.

Ma torniamo alla cronaca della sosta di Ased a Palazzolo per chiederci se in quella drammatica circostanza l’antico “castrum” abbia subito la sorte delle 98 città dell’isola, saccheggiate e incendiate dal furore saraceno e se gli abitanti siano stati indotti ad abbandonare il vecchio sito per ricostruirne un altro a valle sul costone che si affaccia sull’Anapo, proprio “là dove - scriveva Luigi Bernabò Brea - un isolato torrione offriva comode possibilità di difesa”. Se la poderosa “fortezza” esisteva davvero a quei tempi, anche i Normanni dovettero servirsene. Ma è un’ipotesi che ha bisogno di riscontri. Ruggero I d’Altavilla, fratello di Roberto il Guiscardo e primo conte di Sicilia e di Calabria (1031-1101), dopo aver sopraffatto gli ultimi covi nemici di Val di Noto difesi disperatamente dallo sceicco Benavert, ed ottenuto da Urbano II il privilegio della Legazia Apostolica, fondò le Diocesi di Catania e di Siracusa affidandole rispettivamente alle cure di Angerio e Ruggero (decano della Chiesa di Troina). Fa rilevare Rosario Gregorio: “Provvide egli in prima di appannaggi ossia di convenienti patrimoni la sua real famiglia e diè a Giordano Siracusa e Noto, Ragusa a Goffredo”.

Nel 1101 la corona di Sicilia passa al figlio Ruggero II (1095-1154), mentre a Giordano succede Tancredi, “primo dominus” dell’araba Balansul: con questo nome il paese è indicato nel 1145 nella Geografia dell’Edrisi, divenuto Placeolum nella bolla che Alessandro III inviò nel 1168-69 al vescovo Parisio Spinelli, e Palatiolum nel 1170 nel decreto con cui Guglielmo II il Buono (figlio dodicenne di Guglielmo il Malo tutelato dalla madre Margherita di Navarra) concedeva delle terre all’eremita Stefano. E qui, dopo una pausa di una ventina d’anni, cominciano a delinearsi i primi elementi della storia medievale di Palazzolo, per conoscere i quali rileggiamo “La Selva” di P. Giacinto Leone (1693-1779) (del cui manoscritto Emanuele Messina ha curato una elegante ristampa), per risalire ai primi signori che amministrarono il borgo ibleo, a partire da Alberto Pallavicino, miles di Federico II, rimpiazzato nel 1198 da Pellegrino de Bolas e successivamente da Alaimo da Lentini. Vita leggendaria, avventurosa quella di Alaimo, vissuta quasi sempre tra l’ambizione e il tradimento. Amico di Manfredi, se ne allontana per sostenere gli Angioini, ma li combatte a Messina meritando da Pietro III la nomina di Gran Giustiziere. Mal consigliato dalla moglie Matilde, torna a servire Re Carlo facendo infuriare l’aragonese che senza tanti riperisamenti, lo fa buttare “in mare del Maretimo dentro sacchi con li suoi nipoti”. Di fronte ad atti di fellonia le leggi feudali erano spietate e intolleranti.

Della Baronia di Palazzolo fu investito il catalano Guglielmo de Castellar e nel 1342, sotto Re Ludovico I, suo figlio Parisio de Castellar e Peraportusa. Ne discendono: Roberto de Castellar (1360), morto nel 1374, e D. Bartolomea de Castellar, che sposa Matteo Alagona da Lentini. Nel 1392 il loro primogenito Mazziotta si ribella col padre all’autorità del sovrano ed incorre nella confisca dei beni a vantaggio dello spagnolo Ponzio Alcalà ed Entenza. Da lui il feudo è trasmesso alla figlia Franzina che, non intendendo risiedere in Sicilia, lo vende per ottomila fiorini a Giacomo Campolo (20 agosto 1399): al quale il Re, avendo contratto un debito di 28 mila fiorini, concede il privilegio del “mero e misto imperio”. Una vera mazzata per i poveri sudditi che così venivano giudicati da magistrati consensienti, processati e carcerati senza poter far valere i propri diritti. Fortuna volle che qualche anno dopo il Campolo, suscitato dal conte di Modica Bernardo Cabrera (che aveva ricevuto dei torti dal Re), attuò propositi d’insubordinazione costringendo Martino il Vecchio ad armare un esercito ed a raggiungere Palazzolo per accamparsi sotto il Castello, mentre gli abitanti facevano provviste di vettovaglie e di mezzi di sussistenza, e il barone e il Cabrera schieravano i balestrieri lungo le mura ed equipaggiavano i soldati con bombarde e polvere da sparo. L’assedio si protrasse dal 18 gennaio al 12 febbraio del 1404 e non si sa se vi furono combattimenti e scontri cruenti. é accertato però che la contesa si dissolse bonariamente per l’intervento diplomatico degli intermediari, e mentre il Cabrera, ch’era stato la prima causa del conflitto, grazie ai suoi meriti precedenti, fu assolto e riabilitato, sul cielo del Campòlo, al contrario, si addensavano nubi nere come la notte.

Ora, non so se i giovani abbiano interesse a conoscere i risvolti di questa storia, e farebbero bene a sfogliare le pagine dei testi locali che ne parlano e la raccontano, in nome dei valori e dell’amore delle proprie radici e della propria terra.

Il 9 aprile 1921 Paolo Orsi al Teatro Greco, nel concludere il suo discorso alla Gioventù, esaltava Palazzolo, “città gentile ospitale, discendente dalla piccola, ma non ingloriosa Acre”, che “tanto tesoro racchiude di bellezza naturale e ricordi”. Ogni “zolla del suo suolo assolutamente sacro deve essere calpestata, oserei dire, con venerazione”. Il noto archeologo, figlio della lontana Val Lagarina (1859-1935), legò il suo nome alla quarantennale esperienza vissuta in parte tra scavi e ricerche nel territorio della prima colonia greca di Siracusa, e quasi sempre mantenne con la nostra cittadina un rapporto affettivo, contemplativo, di vera amicizia.

Palazzolo nel secoli bui

Il Visconte Bernardo Cabrera (o Caprera) aveva sposato in Spagna Timbore, figlia del Conte di Prades e di Giovanna sorella del Monblanch, e come fedele parente del Re, quindi, anche se riottoso e indocile, non poteva essere trattato alla stessa stregua del Campolo. Il 20 giugno 1392, Martino gli concesse la vasta Contea di Modica appartenuta ai Chiaramonte, dicendogli: “Sigut ego in regno meo, et tu in Comitatu tuo”. Fu la spinta perché egli facesse dei suoi possedimenti uno stato nello Stato, dove poter regnare in maniera autonoma e indipendente. Sul suo stemma di famiglia fece incidere l’immagine di una capra, simbolo di benessere, e i popolani cantarono:

"Capruzza, ca' pi nui si' capra r'oru,

rinnìllu se spirdiu lu tiempu amaru”

L’epoca aragonese fu una delle più turbolenti per la Sicilia per via del “regio dominio che l’anarchia travolse nelle sue furibonde procelle” (dall’Anonimo Minore). Da una parte i Martini (il Duca di Montblanch e suo figlio con la Regina Maria), dall’altra i vicarii, che si scannavano tra loro, e gli insaziabili baroni che, divisi fra le fazioni dei latini e dei catalani, difendevano gelosamente i propri privilegi: or protetti ora scomunicati da Bonifacio IX, un papa bramoso di denaro sino alla morte (Gregorovius). Insomma, un intreccio di nomi e di fatti oscuri che condizionarono la vita sociale delle popolazioni negli anni a cavallo tra i secoli XIV-XV. Uno dei più ribelli feudatari, Andrea Chiaramonte, decapitato a Palermo, oltre alle sostanze, aveva perso l’onore della famiglia, in quanto sua sorella Costanza, ritenuta sterile dalla suocera Margherita, complice il Pontefice, era stata ripudiata da Re Ladislao di Napoli e costretta al concubinato. La cosa non fu gradita al modicani che con sdegno cantarono:

"Viola Viulinu,

cunsìdira la nostra paisana!

Lu Papa ca la sciorsi di Rigina,

ci dissi: Figghia mia, fa’  la buttana!

Lo stornello, raccolto a Chiaramonte Gulfi, secondo lo Sciascia e riportato da Alessandro Italia a pag. 189 della sua opera, fu pubblicato nel 1907 da Eugenio Sortino-Trono Schininà ne “I Conti di Ragusa e della Contea di Modica” (Ed. Criscione, p. 155). Ma non è che, eliminata la nemica casata dei Chiaramonte, Martino il Vecchio e Martino il Giovane trovarono accoglienza favorevole ed esaltante nel l’impadronirsi del “siculo trono”, perché altri potenti signori cercarono di ostacolarli e fra questi Artale Alagona, successo al padre Manfredi nella Contea di Mistretta, che li ostacolò barricandosi nell’inespugnabile Castello di Aci (lo stesso che incendiato dal Guelfi napoletani nel 1326 alla vigilia d’una nevicata, ispirò il detto popolare: “Doppu ca Jaci arsi, nivicáu”).

Ora, se questi erano i principali protagonisti della politica nel Regno, nel borgo ibleo altri personaggi si alternarono sulla scena della pubblica amministrazione con titoli di baroni che, sin da Federico di Svevia, per rappresentare ufficialmente l’autorità regia, si servivano di castellani, secreti, baiuoli, magistrati ed altri fidati sudditi e vassalli (A. Italia ne fa un elenco dettagliato a pag. 328). Nel 1397 Palazzolo fu difeso dall’assedio di Guglielmo Raimondo Moncada, Duca di Augusta, dal “miles” Mainitto Sortino II, primogenito di Giullo Orsino di Roma, già coppiere imperiale. Uomo di illustri origini, ma poco conosciuto. Si sa che, chiamato a dirimere una contesa tra Siracusa e Lentini, gli fu accordata la terra di Sortino (da cui presero i nomi i suoi due figli ed i futuri discendenti, compreso lo storico ragusano Eugenio Sortino-Trono Schininà, autore del testo che citiamo spesso come fonte). Mainitto si accasò a Noto e il 28 marzo 1397 fu gratificato da Martino I con la concessione di alcuni tenimenti, fra cui il feudo di Bibino.

Altra sommersa figura nella nomenclatura del dominium locale era quella di Guglielmo Boira (o Borgia), che nel 1401 risulta castellano ed essendo anch’egli indicato come civis palazzolese, è probabile che entrambi - opina Tonino Grimaldi -”abbiano ricoperto in tempi successivi, la carica di ‘capitaneus’ che in quel tempo comportava, con l’esercizio del potere politico e l’amministrazione della giustizia, il governo della terra” (Studi Acrensi 1, p. 76). Di semplici amministratori quindi si tratta, non di Baroni, come attesta P. Giacinto Leone (La Selva, p. 105). Il 2 marzo 1405 Giacomo Campolo fu condannato dal tribunale della Magna Curia a rinunciare al “castro Palacioli ac feudo Bibinj” in favore di D. Bartolomea de Castellar che era rimasta estranea al voltafaccia del marito Matteo Alagona e figlio Mazziotta nel rapporti con gli Aragonesi: la quale ne fece donazione alla figlia Eleonora (o Berlingaria) andata a nozze con Alvaro Casaponti ed Eredia (1408). La dote però, non portò fortuna alla giovane Baronessa che, rimasta vedova senza prole sia del primo marito (1431) che del secondo Pietro Ledesma (1450), decise di frazionare la signoria a vantaggio dei figli del fratello Giovanni, assegnando così Palazzolo ad Artale Alagona e Bibino Magno a Mazziotta (immagino che in altri centri geografici gli stessi nomi non si ripetano di generazione in generazione con tanta frequenza come nel Medioevo a Palazzolo). L’atto di divisione del patrimonio fu approvato e confermato il 26 novembre 1451 da Alfonso V d’Aragona detto il Magnanimo, che sin dal 1412 il Parlamento aveva inviato in Sicilia “comu re princhipali et appartatu senza haviri dipendencia de altra parte”, cioè come monarca assoluto e indipendente. Artale così, pur non essendo crede diretto, divenne il primo barone del paese perpetuandovi la sovranità degli Alagona. Da lui nacque Andrea Alagona che, rimasto orfano di padre in tenera età, crebbe sotto la protezione dello zio Mazziotta. Maggiorenne, sposò Elisabetta Santapau, Duchessa di Montemagno e figlia del Marchese Ponzio di Licodia, generando i figli Artale, Ponzio ed Eleonora (e non Belladama come asserisce erroneamente l’Amico). Qui si chiude un primo capitolo della storia medievale di Palazzolo che, scrisse Nicolino Zocco, “rientrato nella dominazione degli Alagona, perde anche l’importanza per lo smembramento delle baronie di Bibino-magno e successivamente per l’alienazione dei feudi” (Notizie Storiche, p. 24).

La vita nel Castello era noiosa e monotona, specialmente quando non c’erano gare, duelli, quintane e tornei, e per renderla “festosa e gioconda” il signore organizzava spesso con i dignitari divertenti battute di caccia al cinghiale e alla capra selvatica lungo i sentieri scoscesi dell’Anapo o di Monte Lauro. Un giorno di novembre del 1489 il Barone Andrea cambiò zona e si portò a Giambra, e qui mentre si addentrava negli anfratti boscosi, “un cinghiale sanguinante e grugnente, traversò le basse e torbide acque del torrente per nascondersi nella macchia” a pochi passi da lui e dalla sua ciurma. Era stato il Conte di Buscemi, Giovanni di Ventimiglia, a stanarlo e colpirlo, e naturalmente ne pretese la restituzione. Ma la bestia aveva violato i confini del territorio palazzolese e l’Alagona non intendeva cederla. La disputa si arroventò e dalle parole si passò ai fatti: il Conte Giovanni, “in un eccesso d’ira lo colpì con lo scudiscio e l’altro non esitò a saltargli addosso e lo pugnalò”. Un banale litigio finito male. Gli astanti rimasero interdetti, senza parola: improvvisarono subito una barella con rami d’albero e vi adagiarono la vittima per trasportarla a Buscemi, dove purtroppo giunse cadavere. Alessandro Italia ne fa un racconto minuzioso e suggestivo che val la pena rileggere (pag. 25). Ci fu un processo davanti alla Corte dei Pari e qui, come nelle tragedie di Euripide, intervenne dall’alto il Deus ex machina per risolvere l’ingarbugliata matassa: cioè, furono invocate le attenuanti generiche, la provocazione, l’offesa dell’onore, l’orgoglio ferito, la tradizione, insomma, per farla corta, D. Andrea se la cavò con l’assoluzione piena. Intanto, l’8 giugno 1490 a Buscemi, al povero Conte, morto senza figli, successe il fratello Francesco.

Il Borgo e il Castello

Nell’Alto e Basso Medioevo il Feudatario viveva in un maniero inespugnabile, rozzo e inospitale, mentre il Signore si accontentava di una modesta dimora in una “casa palazzata”, circondato da sudditi e fidati consiglieri. La figura del Barone s’inserisce tra l’uno e l’altro ed occupa un gradino superiore del Visconte e quello inferiore del Conte. Nell’araldica, il suo blasone è una corona a forma di cerchio tempestato di perle. Ma l’insegna degli Alagona era “il leone rampante e lo scudo con sei palle” (A. Italia, p.40), e quando lo scrissi in un articolo su “La Sicilia” (18 luglio 1985), mi fu precisato con lettera il 22 agosto da Bruno d’Aragona, storico siracusano, che “in nessuno dei vari stemmi Alagona appare mai il leone. e nemmeno le ‘palle’, trattandosi, nella fattispecie, di ‘rotelle’, cioè di scudi o scudetti da combattimento o duello perfettamente rotondi”. A Palazzolo, D. Andrea Alagona, rimasto vedovo di D.Elisabetta Santapau, convolò a nuove nozze con D. Sicilia Barreri, avendone la figlia Giovannella, “che a suo tempo si maritò con D. Girolamo Imperadore”. L’8 novembre 1496 egli, trovandosi “infirmus in lecto”, nominò crede il primogenito Artale, che aveva 14 anni e crebbe sotto la tutela materna e dello zio Domenico Alagona; e per quanto Alessandro Italia ce lo presenti defunto sul cataletto mentre è portato alla sepoltura “nella chiesa baronale di S. Maria di Palazzo, fuori la città” (La Sicilia Feudale, p.27), noi non sappiamo veramente quando D. Andrea morì, dato che nel 1525 appare citato in giudizio dal Conte di Mazzarino. Dei suoi tre figli Artale, divenuto maggiorenne col titolo di secondo Barone di Palazzolo, si ammogliò con D.Vincenza Lucchese del Barone Matteo di Delia e non ebbe figli. Rimanevano Ponzio che, distratto da tutt’altre chimere, non pensava al matrimonio, ed Eleonora che sposò D. Giovanni Bonajuto da Catania, e da quando lasciò la patema residenza, i due fratelli si diedero alla pazza gioia “dissipando in comune le avite ricchezze” e commettendo le più disumane scelleraggini. Tuttavia, gli Alagona, erano come tutti i feudatari del tempo: se da una parte acquistavano terre e ricchezze con la violenza e la prepotenza, dall’altra, dinanzi al popolo e al clero fingevano di possedere doti di bontà, generosità e zelo religioso. Fu così che, ispirato da questi sentimenti, il 16 novembre 1529 Artale fondò il Convento dei PP. Minori Osservanti in Acremonte, annettendovi la “ecclesia noncupata Sancta Maria de Palazzo a dicta terra et castro terrae Palatioli”, chiamata Madonna di Palazzo (dal presunto “Palatium” di Jerone II): per la quale attomo al 1471 Francesco Laurana aveva eseguito il suo capolavoro scultoreo che, come l’Annunciazione” antonelliana (rimasta anch’essa ignorata dal cronisti dell’epoca e successivi), riscosse grande successo nella Mostra romana alle Scuderie del Quirinale dal 18 marzo al 25 giugno 2006. Artale e Ponzio Alagona vissero dov’erano nati e cresciuti, vale a dire nelle ampie sale del vecchio Castello che si aprivano sul “baglio” e dalle cui finestre romaniche a tramontana la vista scollinava sulla valle dell’Anapo, e la campagna di Gùffari e di Monte Lauro; anzi è probabile che risiedessero all’intemo della Torre di Sant’Elmo che prospettava sugli Scalilli (oggi strada carrozzabile), da dove era facile sentire Antonio Cabiba che “dalli merguli del castello gridava.... 0 Marrao... và che nello lavuri ci su dui bovi nella contrada della Comdamina” (ho riportato la citazione di Tonino Grimaldi da Studi Acrensi 11, p. 164, per dimostrare come parlavano e scrivevano i nostri avi).

Il panorama, che abbracciava Spirito Santo e la zona di S. Nicolao, si spingeva fino alla piazza degli Uffici (oggi Umberto), centro di negozi e di affari, dove si concentravano le sedi della Corte e della Giustizia, le “putighe” artigiane, la speziaria, gli studi medici e notarili. Nel 1622 i giurati dell’Università decisero di allargare e abbellire la piazza fino ai dammusi delle carceri verso Santa Sofia, e fecero “dirrupari et rislapidari molte boteghe”, fondaci e magazzini. All’angolo con via Montanero (Vincenzo Messina), sul sito dell’attuale istituto scolastico, si stagliava la prima chiesa di S. Paolo che nel 1627 fu ceduta dalla Confraternita ai PP. Domenicani per insanabili controversie, e la miracolosa statua, modellata nel 1507 a Ragusa da D. Vincenzo Lorefice, fu per dispetto trasferita alla Matrice. Poi all’Apostolo fu costruita la seconda chiesa sull’antico edifizio di Santa Sofia, e quella dei PP. Domenicani fu intitolata al Santo predicatore di Castiglia. Chi della mia età non ricorda la chiesa di S. Domenico con il suo portale neoclassicheggiante e il bianco campanile quadrato architettonicamente spontaeno e dialettale? Nel 1940, durante la guerra, essa era già chiusa al culto ed ospitò i soldati della Divisione “Napoli”. In una nota d’archivio del 1636, raccolta da Tonino Grimaldi, si fa cenno all’esistenza in piazza di un albero detto “bagolaro: uscìo di detta chiesa et arrivati sotto lo favaraggio in anti la porta grandi di detta chiesa”.

In quel tempo la popolazione non superava i quattro-cinquemila abitanti sparsi tra alloggi decenti e casupole affumicate lungo strade sterrate e trazzere polverose chiamate coi nomi dei quartieri che collegavano: l’Ebralda, Santo Nicolao, San Martino, San Blandano, lu Crucifixu, Santo Ippolito extra moenia. A Fontana secca una cappella era dedicata alla Madonna degli Angeli e un’altra a S. Bartolomeo ubicata tra la Vanella di Bue (via Roma) e SS. Trinità (via Tucidide). P. Giacinto Leone elenca 33 titoli religiosi e tutti facenti riferimento alle località di appartenenza secondo la tradizione greca confermataci da Gabriele Judica: “é ordinario il trovare presso l’antichità assegnati i templi e le statue, come confini”. E l’archeologo fa l’esempio di una iscrizione latina (tradotta dal greco) che recita:

"Theodoro Zaei filio

Positio, vel statio sub

Veneris templum (vel) simulacrum”

(Le Antichità di Acre, p.63).

La chiesa più antica era quella di S. Martino appoggiata al Castello e confinante ad oriente con S. Blandano: all’alba vi si celebrava la “missa cantus galli” per i lavoratori di prima levata aventi obblighi mattutini. Dagli “Annali di Siracusa dal 1200 al 1400” di G. Capodieci apprendiamo che la chiesa siculo-normanna di S. Nicolò fu consacrata nel 1215 da Bartolomeo Gash (1212-1222), 31.mo Vescovo d’Ortigia (e non da un certo Adamo nominato da Onorio III, come affermano alcuni): danneggiata seriamente dal terremoto e in attesa di essere restaurata, le funzioni sacre furono solennizzate in una “commoda barracca” allogata nei pressi di S. Sebastiano a pochi passi dalla “speziaria”. Non sappiamo quando essa fu fatta Matrice, ma sulla sua Chiesa di S. Domenico (ossia prima Chiesa di San Paolo) in piazza degli Uffizi con annesso Convento fondato dalla “bizzocca di S. Domenico” Suor Girolama Scalzo (1577-1632) col concorso del nobile Mario Daniele.

Per la storia è utile consultare il testo compiuto ed esauriente di Luisa Santoro, “L’archivio storico-vicariale dell’Arcipretura di S.Nicolò a Palazzolo Acreide”(2001). L’Annunziata era una delle chiese principali e più frequentate, essendo in un quartiere popoloso dove, dopo il 1693, poche case risorsero dalle macerie. Basta dare un’occhiata negli orti all’intorno, per vedere affiorare tra le erbacce i ruderi dell’antico abitato. Il disastro sismico significò pure fame e miseria: fu infatti, per la mancata ripresa economica che l’artistica facciata del tempio, che nel 1608 era stato aggregato alla romana Collegiata di S.Lorenzo in Damaso, non fu mai completata. Nella classifica delle attività lavorative il primato spettava all’agricoltura, che rappresentava la classe rurale dei contadini, iornatari, pecorai, porcari. I massari e i gabelloti affittavano i latifondi e i più fortunati ascendevano al ceto sociale della borghesia e del patriziato. Seguivano i commercianti, gli operai, i professionisti, i possidenti: categorie, queste ultime, che erano in minoranza (il 6% ) e condizionavano l’intera economia. Le famiglie più in vista risiedevano a li Barreri (zona di Castelvecchio protetta e recintata che aveva resistito all’assedio del Moncada, Conte di Augusta, nel 1397, e a quello del Montblanch nel 1404) e lungo le vie che confluivano in piazza: si distinguevano gli Alagona, i Bonajuto, i Di Martino, i Noto, gli Infantino, gli Scalzo, ecc. Il clero deteneva il monopolio della cultura. Ciò spiega come in un periodo di scarso mecenatismo in quest’angolo isolato della Sicilia, quando ancora alla scultura e alla pittura era negata la parità dei diritti con le arti liberali, sia potuta sbocciare nella mente di un oscuro sacerdote, D. Giuliano Manjuni, l’idea di arredare l’altare maggiore dell’Annunziata, di cui era rettore, con la tavola di un artista già noto, anche se non celebrato ancora fra i più illustri dell’isola. Non solo, ma soltanto un uomo che avesse una infarinatura tecnico-artistica aggiornata poteva pretendere che la pala fosse dipinta senza “fondo d’oro e azzurro fino” che, come scrisse il Longhi, era la tradizionale formula “imposta” nel contratti dai committenti (Antonello l’applicò l’anno prima, e fu forse l’ultima volta, nel Polittico di S. Gregorio danneggiato nel terremoto del 1908 ed oggi al Museo Nazionale di Messina). Da questo punto di vista, lo sconosciuto prete del borgo ibleo si rivelò come un provvidenziale “subsidium” per l’artista peloritano che, subito dopo l’esecuzione e la consegna dell’“Annunciazione” palazzolese, intraprese il felice percorso veneziano di S.Cassiano per brillare come un astro luminoso nel cielo dell’arte europea.

Un fantasma nel Castello

Il secolo XVI in Sicilia non apporta sostanziali cambiamenti nel rapporti tra potere regio e Baronaggio, e nulla di nuovo accade nell’antico borgo ibleo, tranne il funesto accidente degli Alagona registrato in una nota del Notalo Infantino e depositata nell’Archivio di Stato di Siracusa, sul quale P.Giacinto Leone, fonte inesauribile di informazioni, dà un accenno stringato e senza calore (quasi avesse timore di tramandare al posteri la vergognosa vicenda). Egli scrive: “Questo Artale II fu ucciso da Pontio suo fratello in aedibus Castri Palatioli che per tal fraticidio fu decapitato” (Selva, p. 206). Sull’efferato crimine si ha notizia di una versione poetica redatta da Vincenzo Messina (1819-1880), ma - secondo Salvatore Allotta - il relativo manoscritto è irreperibile. Perciò, il racconto narratoci da Alessandro Italia rimane il più convincente, e ad esso noi ci ispiriamo per riproporne una breve sintesi.

Il delitto di un “dominus” non è cosa di tutti i giorni, o frutto di una estemporanea follia: matura nel tempo, dopo che al dubbio subentra il sospetto e all’ansia l’incubo. Certamente, tra scandali e pettegolezzi, furono queste strane fisime ad agitare i sonni di Ponzio - controverso personaggio dell’antica casata -, da quando fiutò una presunta tresca tra il fratello Artale (che peraltro, era sposato con D. Vincenza Lucchese) e la giovane Joannella, moglie del Secreto Gerolamo Gioeni di Modica, dalla quale egli si sentì bruscamente respinto. Questa, almeno, l’ipotesi che fa trapelare l’insigne medievalista attorno all’imperdonabile affronto che accese, forse, nella mente malata di Ponzio un sentimento di cieca gelosia e il proposito di tessere una malvagia trama: nella quale coinvolse con un falso pretesto il marito tradito ordinandogli di assoldare i servi infetti dallo stesso rancore. Il raid scattò il 4 settembre 1533, a due ore di notte, mentre il borgo sonnolente smaniava nell’afoso silenzio estivo, tra i muggiti che giungevano dalla valle, il gorgoglio delle acque della fiumara e il monotono frinire delle ultime cicale. Al segnale convenuto i sicari, armati di scopette e di archibugi e con le micce accese alle serpentine, irruppero nella sala e aggredirono il Barone: il quale si difese con la forza di un gagliardo cinquantenne, ma poi, “trafitto e sanguinante si rovesciò con un ultimo gesto di rabbia”. Un delitto perfetto, e l’autore che lo aveva architettato nei minimi particolari, fingendo panico, disperazione e collera, “giurò vendetta”. L’indomani, 5 settembre, mentre erano in corso le indagini, Ponzio convocò il notaio Salvatore Infantino, il cugino Andrea Alagona e il nobile notaio Dalmazio Noto, per proclamare il proprio diritto alla successione come unico erede maschio. E intanto, nelle vesti di incontrastato padrone, l’8 ottobre fece cassa vendendo 40 salme di frumento a 25 tarì la salma. Infine finse di avere scoperto gli assassini e ne fece i nomi: il Magnifico Secreto Gioeni, Vincenzo Donadio, Mariano Lamedica, Leonardo de Rabido, Francesco de Accardo, Luca de Alibrigo, Alias Rizzarelli e Giovanni-Antonio Lavaccara. E fu un errore che pagò caro in quanto quelli, tutti complici rei confessi, prima di finire chi sulla forca, chi in galera, lo accusarono di essere stato lui il principale mandante. Di fronte a prove schiaccianti, egli recitò la parte dell’innocente, ma fu smascherato e processato dalla Regia Gran Corte, ed affrontò la sentenza di morte con aria tesa e smarrita, venendo giustiziato a Palermo “more nobilium” (= con la decapitazione) nell’anno 1534. Da allora, come sempre accadeva nei misfatti scellerati e passionali del Medioevo, dove ogni epilogo sfociava nella metafora del fanatismo e delle superstizioni, anche a Palazzo1o l’immagine popolare fu turbata dall’eco di sinistri presagi per l’apparizione notturna di un fantasma che vagava tra le ombre del Castello, come quasi volesse evadere dal proprio destino.

Sul tragico episodio scrissi un saggio, inquadrato nella storia medievale di Palazzolo, che mi fu premiato in un concorso letterario il 14 dicembre 1975 al Teatro Argentina di Roma da una Commissione presieduta da Giorgio Petrocchi con queste motivazioni: “originalità di ricerche e di prospettive storiche, ben delineato l’humus della terra di Sicilia” e fatto “buon uso delle fonti”. Nel 1980 il testo completo fu pubblicato sulla Rivista internazionale “La Cultura nel Mondo” diretta, da Leo Magnino.

Con la morte dei Fratelli Alagona la rocca maledetta fu abbandonata (tranne i dammusi, adibiti a sedi carcerarie) e il 28 febbraio 1534, come risulta dagli atti del notaio Dalmazio Noto, della Baronia fu investita la sorella Eleonora e quindi il figlio Antonio, avuto dal matrimonio con Giovanni Bonajuto da Catania. Dalla unione di Antonio con Francesca Gulfi, siracusana, nacquero: Artale III, Andrea, Girolama ed Elisabetta. Protestò D. Matteo Lucchese, padre di Vincenza, pretendendo la restituzione della dote nuziale data alla figlia, vedova di Artale, e la Signora Alagona gli cedette l’usufrutto, titolo ch’egli nel 1571, prima di morire, trasmise al nipote Scipione Lucchese con l’obbligo di cooperare alle spese di fabbricazione del dormitorio dei PP. Minori in Acrernonte e di erogare 20 onze annue all’Ospedale di S. Caterina.

In questa girandola di nomi e di intrighi la vita a Palazzolo continuò a svolgersi col ritmo quotidiano di sempre, anche se la gran parte degli abitanti viveva alla giornata, non disponendo di lauti ricavi. L’economia era pianificata, stagnante, e la paga giornaliera di alcune categorie come sempre scarsa e incerta. “Li lavuraturi di arari oy di siminari cum li soy boy et stigli - si legge in un antico documento -, non possanu aviri plui di 2 tarì lujorno, di suli in suli, cum lo vino”. Qualcosa in più andava agli artigiani: “li muraturi et mastri d’axa” prendevano “tarì 2 e 10 grana”. Questo era il salario di mastro Calligo da Giarratana che nel 1574 costruì il Convento dei Cappuccini. E ancora: un mietitore, “ultra di ditti soldi habia la quarta parti di quillo che guadagnia ni lo metiri”. Erano i così detti lavori “a cottimo” o “a staglio”. L’onza, o oncia, corrispondeva a 10 tarì, 1 tarì = 20 grana, 1 grano = 6 denari o piccioli. Si ricordi la somma contrattata tra D. Giuliano Manjuni, rettore dell’Annunziata, e Antonello da Messina nel 1474, per la pala del V” Annunciazione”: “Et pro precio et precii rescactacione unciarum undecim”. Le famiglie più facoltose vivevano con un reddito annuo di 60-70 onze; quelle dei gentiluomini, discendenti dalle dinastie feudali (ed aventi il nome preceduto dal predicato d’onore “Don” riservato a nobili e chierici) si attestavano sulle 500 onze l’anno ed erano serviti da famigli”, schiavi ed esattori poco scrupolosi che ricorrevano a qualsiasi mezzo per riscuotere canoni, censi, balzelli e tributi senza compromessi coi sudditi.

In quel tempo il paese si espandeva verso la parte alta e le piazze dominate dal principali luoghi di culto, determinando lo spostamento del baricentro e la nascita di nuovi quartieri, cui confluirono le strade più importanti punteggiate da moderni nuclei e residenze diversificate, edifici di lusso e case terrane ad uno o più corpi, o “impalazzate”, come quella del Barone Ferla di Tristaino in via Garibaldi sopravvissuta alla furia sismica. Lo schema architettonico adottato era spontaneo, vernacolare, direbbe Antonino Uccello, caratterizzato da raccordi di scalinate, vicoli, ronchi, portici e cortili plurifamiliari. Furono ampliate e abbellite le grandi chiese: quella di S. Sebastiano, “fabbricata vicino l’antica, fu benedetta e aperta al pubblico nel 1655 e il 28 febbrao 1664, sotto il parrocato di D. Francesco Nigito, “fatta Sacramentale, Filiale Parrocchiale e Coadiuttrice” dal Vescovo Capobianco, vi fu venerata come protettricc la Madonna d’Itria (l’edificio, ricostruito dopo il terremoto, fu nuovamente, danneggiato il 18 dicembre del 1702 a causa di un gran vento che ne “gettò a terra le arcate”). Devota attenzione fu rivolta alla seconda chiesa di S. Paolo (la prima era stata donata ai PP. Domenicani), ricostruita sul sito di S. Sofia nel 1644 da Magister Vincentius Basili e quasi ultimata nel 1657, quando accolse definitivamente il simulacro dell’Apostolo. Anche quelle della Madre Chiesa (cui al miei tempi si accedeva da un’ampia scalinata, con a lato il tempietto di S. Caterina con campanile), dell’Annunziata, di S. Michele e di Sant’Antonio, edificate in epoche remote, ebbero zelanti interventi e rispettose cure: assai meno le cappelle e i santuari minori, scarni e artisticamente poveri, adatti alle esigenze spirituali di piccoli rioni e aperti ad una limitata attività liturgica. La maggior parte di essi fu cancellata dal terremoto. Si intensificarono le confraternite (ed esplosero i primi conflitti di campanile) e si consolidò l’Ospedale o Monte di Pietà presso la chiesa di S. Caterina, patrona dei trovatelli, a fianco di S. Nicolò o Matrice, che operò fino al 1680 distribuendo elemosine e tutelando l’educazione degli orfani e delle vergini.

Una novità negativa si registrò nel campo della giustizia nel 1553 allorchè il clero, classe fra le più favorite, rafforzò il suo potere con un’apposita legge che autorizzava il Vicario Foraneo, braccio destro del Vescovo - come fa rilevare Luisa Santoro - “a giudicare in materia civile e ìn materia criminale, ad emettere provvedimenti d’urgenza e a procedere a ricercare informazioni e prove” (L’Archivio storico vicariale della Chiesa Madre”, p.59). Il 28 ottobre 1567 il paese era pavesato a festa per le nozze tra D. Antonio Martino, regius miles nato a Vizzini nel 1543, e Donn’Angela de Alagona (figlia di Isabella Alagona e Barone Montalto): ma ignorava che da lì a poco il 28 ottobre 1579, Artale III Alagona e Bonajuto, già fondatore del Convento dei PP. Cappuccini (1574-1576), “molestato, e annoiato dalli creditori”, vendesse “ lo stato di Palazzolo a D. Francesco Santapau, Principe di Butera e Marchese di Licodia”, per il prezzo di 48 mila 170 scudi e tre tarì (corrispondenti a 19271 onze 3 -, come precisa il frate cappuccino nella Selva, p. 236). L’atto fu stipulato dal notaio Alessandro Taschetta di Licodia. In precedenza, il 25 ottobre 1570, egli aveva incassato 19.251 lire dalla alienazione dei feudi di Falabia e di Bibinello, e non gli erano bastate. Il nuovo ricco acquirente non ebbe eredi (l’unica figlia naturale, Fiorella Manueli detta Camilla, sposò Pietro Velasques e, morto questi, Nunzio Ruffo dei Principi di Scilla) e sentendosi prossimo alla fine, il 5 dicembre 1590 fece testamento in favore della moglie Donna Imara Benevides: la quale prese possesso della Baronia con atto notarile Cannarella il 6 dicembre 1590, perfezionandone la pratica il 12 dello stesso mese. Ciò in base ad una disposizione regia di Ferdinando (1509) che, per evitare alterchi e concorrenze, consentiva agli aventi diritto di considerarsi successori durante la infermità dei titolari: “si hagia di continuari la possessioni di lo difunto in pirsuna di dicto eredi et intendersi essiri la possessioni vera continuata”.

Il mero e il misto imperio

Il Principe di Butera fu sepolto nella chiesa dei Gesuiti di Messina e il 29 novembre 1591 la vedova Donna Imara s’insediò a Palazzolo, dove ripristinò il privilegio normanno del 1097, secondo cui poteva scegliersi un “rector” od “orator” addetto al tempio castellano di S. Martino, che doveva essere ancora il cuore religioso del borgo. Al cappellano per le prestazioni rituali veniva corrisposto lo jus datae, ossia una quota delle decime o imposte devolute alla mensa dei canonici. La “Barunissa” si mostrò caritatevole e generosa e si diede ad opere benefiche, finanziando fra l’altro la fondazione del Monastero delle Moniali, o Badia, sul sito dell’attuale Municipio, sotto i1 titolo dell’Immacolata e regola di S. Benedetto. Alle spese concorse pure D. Antonio Martino, che morirà il 4 ottobre 1594 venendo inumato nella propria Cappella dei Tre Re alla Matrice. Intanto, foschi e minacciosi nuvoloni avanzavano all’orizzonte con conseguenze devastanti sotto l’aspetto sociale e religioso, e non era davvero una fortuna se la Chiesa - come affermava Nicolino Zocco - “col suo doppio potere spirituale e temporale rendeva meno duro il giogo feodale” (Notizie Storiche, p. 38), in quanto con l’attribuire al rappresentante della giurisdizione ecclesiastica la facoltà, non soltanto di prevenire o scomunicare, ma anche di imprigionare, punire per falsa testimonianza e reati vari, furto, stupro e bestemmia, si alimentavano le falde persecutorie e gli intrighi che caratterizzarono le pagine più dolorose della storia siciliana dal 1500 al 1782 (anno in cui il Vicerè Caracciolo pose fine alla feroce repressione ordinando di distruggere atti e verbali dei tribunali). Della tenebrosa epoca spagnolesca di grande eloquenza testimoniale sono i disegni e i versi in dialetto che i condannati disperati, in attesa di giudizio, incisero sulle pareti dello Steri, famigerato carcere di penitenza a Palermo: località sinistra adottata da Leonardo Sciascia in “Morte dell’Inquisitore”, con illustrazioni di Renato Guttuso, dove si racconta che il 4 aprile 1657  l’eretico di Racalmuto fra Diego La Matina si rivoltò contro il suo torturatore, Don Juan Lopez de Cisneros, fracassandogli il cranio con una spranga di ferro. “In un periodo nel quale vescovi, teologi, parroci e frati governavano - scriveva Alessandro Italia (p. 121) -, l’Inquisizione fu il mezzo per assoggettare i cittadini alla Religione e allo Stato”. Di questo stato di cose si ebbero riflessi anche a Palazzolo, dove si verificarono mutamenti inquietanti già dall’inizio del nuovo secolo.

Narra Fra’ Giacinto Leone che il 2 marzo 1606 la Benevides, “per magior servizio di nostro Signore, e per la buona amministrazione della giustizia, e reprimere l’audacia di alcune persone temerarie, e delinquenti, e per lo governo di detta terra, desidera avere lo Mero, e Misto Imperio: quattro scudi per ogni fogo” (= famiglia). Era come barattare i diritti dei cittadini, trattarli né più né meno come roba da supermercato. Sulla “vexata quaestio” Tonino Grimaldi dà questi dettagli: 1a signora aveva la competenza di giudicare gli abitanti del feudo sia nelle cause civili che penali e di nominare i giudici e gli ufficiali di giustizia”. E ancora: poteva infliggere punizioni corporali lievi o gravi, fino “al taglio del naso o delle orecchie, all’amputazione degli arti”, senza escludere la “pena di morte per glaudio, per soffocamento od altro” (Studi Acrensi 1, p. 78). Ma la morte, che come la livella pone sullo stesso piano sia i potenti che i sudditi, il 26 settembre 1618 raggiunse colui che s’era svenduto il paese per debiti, Artale III Alagona e Bonajuto; e più tardi anche la Baronessa sparì di scena, lasciando l’eredità a Camilla (Fiorella Manueli di Licodia), ch’era stata legittimata e col primo marito D. Pietro Velasques aveva avuto tre figli Francesco, Gutterra e Maria; ai quali se ne aggiunsero tre di secondo letto: Vincenzo Franco, Giuseppe e Calcedonio (nati da Nunzio Ruffo dei Principi di Scilla). Della successione, Vincenzo Franco fece gratuita donazione al fratello uterino Gutterra Velasques e Santapau, che si proclamò primo Principe di Palazzolo (15.mo di Sicilia), per averne acquisito il titolo il 21 maggio 1622. Morto egli senza prole, la donazione recesse in favore di Vincenzo Franco, Barone di Licodia ammogliatosi con Giovanna Ruffo, principessa di Scilla, con la quale generò i figli Francesco e Tiberio. Fu durante il Principato di Vincenzo Ruffo che “la bizzocca” Suor Girolama Scalzo (1577-1632) “infervorò il popolo di Palazzolo di fondare il Convento dei PP. Domenicani” e fu lei che “persuase la Confraternita della Chiesa di S. Paolo, a cedere la Chiesa alli PP. Domenicani: come infatti gli la cesse, per atto pubblico” (“Notaro Paolo Buggiuffo a 26 Giugno 1627”, Selva, p. 218). Anche il nobile Mario Daniele si addossò una parte dell’onere per la edificazione del Convento, per aver ricevuto la grazia della liberazione del figlio ch’era stato sequestrato dal banditi Cavallo e Longino. Nel 1663 D. Francesco Ruffo fece rinuncia degli stati di Palazzolo e Licodia in favore del fratello D. Tiberio Ruffo (terzogenito di Vincenzo e Giovanna Ruffo), che amministrò il Principato a partire dal 4 giugno 1665.

Nel 1677 avvenne la “memorabile ribellione” popolare per l’aumento del prezzo del frumento, di cui ci siamo occupati un paio di volte sui giornali e ultimamente con un servizio sul Corriere il 7-8 del 2006. L’episodio, che si concluse con una reazione disumana e crudele, è significativo per le condizioni sociali in cui versava la popolazione rispetto alla classe dirigente e alla nobiltà ligie come sempre alle leggi feudali e protette dalla monarchia. Il 6 novembre 1683 a D. Tiberio Ruffo (sposato con D. Agata Branciforte) successe il figlio minorenne Guglielmo sotto la tutela dello zio Marchese Girolamo: il quale, cresciuto in età, contrasse matrimonio con Silvia Marra avendone il figlio Fulco Antonio. Il 15 luglio 1690, durante il Principato di Guglielmo Ruffo e Santapau, la Sacra Congregazione dei Riti, sulla base dei decreti di Urbano VIII, confermò l’elezione di S. Paolo a patrono di Palazzolo. Ma tre anni dopo il paese e le regioni a Sud dell’isola furono scossi da una inaudita violenza sismica, così descritta da P. Giacinto Farina per indiretta testimonianza: “in quest’anno 1693 a 9 gennaro a 3 e 3 quarti nella Sicilia e particolarmente nella Valle di Noto, un gagliardo terremoto che conquassò tutto il Valle e questa terra di Palazzolo di modochè portò un gran terrore e paura al mortali, ma niente sarebbe stato di danni se non avesse replicato a 11 del medesimo mese di Gennaro. In questo paese di Palazzolo le persone che furono oppresse dalle pietre arrivarono al numero di mille. Un quanto agli edifici delle case e delle Chiese non restò niuno vestigio e principalmente della bella Madre-Chiesa, il cui “campanile era degno di essere veduto, colla bella Cupola del cappellone” (“Selva di memorie antiche”, 1869). Diceva uno scrittore: senza la distruzione sismica, difficilmente i paesi di Val di Noto sarebbero risorti col “nuovo stile”, grazie alla sensibilità e al concorso dei nobili, degli Ordini religiosi, dei cittadini della borghesia e soprattutto dei così detti “genii loci” che impressero al nuovo assetto urbanistico una impronta decorativa incancellabile. Il secolo XVIII albeggiò con alcune complicanze politiche che interessarono ancora la terra glorificata da Federico II, “stupor mundi”: scomparso Carlo II, ultimo sovrano di Casa d’Austria sul trono di Spagna, a governare i siciliani fu chiamato Filippo V, che dall’oggi al domani “s’incorporò tutti gli stati, e Baronie della Sicilia, che erano delli Principi Napolitani, fra i quali fu D. Guglielmo Ruffo, e Santapau, Principe di Palazzolo, e Marchese di Licodia”.

Con la Pace di Utrecht del 14 marzo 1713 le cose cambiarono: prima, per la conclusione della dominazione spagnola durata 300 anni, poi perché l’isola fu assegnata a Vittorio Amedeo Il (1666-1732), figlio di Carlo Emanuele e marito di Anna d’Orléans, nipote di Luigi XIV. Il nuovo monarca sbarcò a Palermo l’11 ottobre 1713 e restò scandalizzato per aver trovato la città in condizioni di grande disagio economico. Visitò anche Catania e vi si fermò alcuni giorni confermando gli antichi benefici e promettendone di nuovi. Ma non riusci a simpatizzare coi cittadini, né a disarmare il suo grande nemico, Carlo III, che si servì del Trattato dell’Aja del 1720, per costringerlo a consegnargli la Sicilia in cambio della sovranità sulla Sardegna. Nel 1734 lo stesso Carlo III costituì il Regno delle Due Sicilie, che si protrasse fino al 1860, “e li Principi Napolitani - sottolinea l’autore della Selva (pag. 235) - si ripigliorono li loro stati incorporati” e anche D. Guglielmo Ruffo rientrò nel possedimenti di Palazzolo e di Licodia. Il 10 agosto 1759 venne a mancare il Re di Spagna Ferdinando VI e, in mancanza di eredi, gli subentrò sul trono il fratello Carlo III, costretto a lasciare il Regno delle Due Sicilie al figlio di otto anni, Ferdinando III (IV per Napoli). Il 13 maggio 1768 il giovane re si legò in matrimonio con Maria Carolina d’Asburgo-Lorena (1752-1814), figlia dell’imperatrice d’Austria, Maria Teresa, e sorella di Maria Antonietta (ghigliottinata col Re nel 1793), e Catania volle festeggiare l’evento reale elevando un Arco all’ingresso della città (detto poi Porta Garibaldi), su progetto degli architetti Francesco Battaglia e Stefano Ittar, suo genero. Stimato cortigiano di Maria Carolina a Napoli fu un illustre palazzolese, Corradino D’Albergo, fratello di Giuseppe, brillante ufficiale di cavalleria deceduto a Firenze nel 1856. Nel frattempo, alla data del 30 marzo 1748, il Principato di Palazzolo era stato annesso al patrimonio di Guglielmo Antonio Ruffo e Santapau, nato dalla unione di Fulco Antonio con Teresa Favar de Strada e sposo di Lucrezia Riggio (figlia del Principe di Campofiorito e Vicerè di Valenza).

Qui chiudiamo l’ultima pagina di questa breve storia, per non addentrarci nelle vicende dei secoli successivi che appartengono alla rinascita di Palazzolo dalle ceneri del terremoto e alla sua esaltata ricostruzione. Un augurio perché i giovani si rianimino nell’amore della cultura e dallo studio delle proprie radici traggano curiosità e stimolo per approfondirlo.

Vincenzo Teodoro