II problema dell’ambiente nella dinamica educativa


di Antonio Fundarò

Introduzione

Recenti orientamenti nel quadro degli studi di psicologia ambientale, unitamente ad altre discipline quali l’architettura, la sociologia, l’ecologia la pedagogia e la geografia umana, mirano ad una maggiore rilevanza dello sviluppo  del bambino. La letteratura  sottolinea in tal senso l’urgenza e la necessità  di ampliare le conoscenze relative all’universo bambino’. Un aspetto di notevole interesse riguarda “la comprensione dello sviluppo del comportamento del bambino”, tale da richiedere una certa attenzione “agli aspetti dell’ambiente nella qualità di moderators of performance” (Sameroff, Seifer, Baldwin e Baldwin, 1993). Sebbene sia generalmente riconosciuto che la percezione e il comportamento del soggetto umano separatamente dal suo ambiente è impossibile e improponibile, la prospettiva contestualista ha enfatizzato l’importanza dell’esperienza nella comprensione degli atteggiamenti e dei risultati dello sviluppo individuale. A tal proposito, studi recenti enunciano quale scopo principale dell’ecologia dello sviluppo “quello di descrivere lo sviluppo degli individui nei differenti contesti” (Varin, 1995); poiché essa non intende occuparsi di tutti i processi dello sviluppo, studia principalmente “il progressivo adattamento tra l’organismo umano che cresce e il suo ambiente e il modo in cui tale relazione viene mediata da forze che derivano da regioni più remote, appartenenti a un ambiente fisico e sociale più ampio” (Bronfenbrenner, 1979).

 Se appare opportuno parlare di specifiche stimolazioni fornite dall’ambiente, è altrettanto opportuno chiedersi quale stimolazione fornire al bambino  e in che modo, quali percorsi indicare e in base a  quale prospettiva. Infatti, secondo la prospettiva vygotskiana “Gran parte della capacità di interpretazione dei dati sensoriali ci viene dalla conoscenza di ciò che il segnale deve essere, piuttosto che dalle informazioni contenute nel segnale stesso. Queste informazioni aggiuntive provengono da tutto l’ambiente in cui è immerso ciò che sperimentiamo, cioè da quello che chiamiamo contesto” (Vygotsky, 1987).

L’ambiente del bambino

L’orientamento contestuale o “transazionale” che oggi viene privilegiato “... mira a ricomporre la dicotomia tra soggetto e oggetto e, più in particolare, tra persona e ambiente, ammettendo l’esistenza di un rapporto dinamico tra i due, analizzati non più come unità indipendenti ma come aspetti interdipendenti di una medesima unità” (Mainardi Peron e Saporiti, 1995). L’analisi dell’ambiente e lo studio dei rapporti dinamici tra il bambino e il suo contesto mettono in luce come primo elemento costitutivo  l’ambiente familiare, immediatamente seguito da quello scolastico. In relazione al primo fattore, gli americani Brooks, Gunn, Klebanov e Duncan (1996) attribuiscono una notevole importanza alle caratteristiche materne: capacità verbale, sintomi di depressione e supporto sociale che, unitamente all’ambiente familiare, vengono considerate delle variabili predittive del livello cognitivo nel bambino.

 E ancora, Plomin fa una appropriata distinzione tra “ambiente condiviso” e “ambiente non condiviso”. Per quanto concerne la prima definizione, egli sostiene che i bambini cresciuti nella stessa famiglia non sono molto simili anzi, più specificamente, “le influenze dell’ambiente familiare non sono importanti per lo sviluppo. Piuttosto, i dati implicano che le influenze ambientali importanti per lo sviluppo del comportamento operano in modo da rendere diversi l’uno dall’altro i bambini all’interno della stessa famiglia. Ovvero, le influenze ambientali non esercitano la loro condizione su una base family-by-family, ma piuttosto su una base individual-by-individual” (Plomin, 1989).

In sintesi, l’influenza dovuta alla frequenza di un ambiente condiviso si dimostra nettamente inferiore. Meglio ancora, molti fattori ambientali  sembrerebbero far differire le famiglie; essi includono lo stato socioeconomico (SES), l’educazione parentale, e i metodi educativi adoperati con i figli. Secondo la teoria dell’apprendimento tradizionale (Skinner, 1971) “l’opinione che sia l’esperienza ad indurre dei cambiamenti nel comportamento è legato strettamente a quella che l’ambiente controlli il comportamento” (Miller, 1987). In linea con la prospettiva teorica dell’apprendimento sociale moderno, il comportamento influenza l’ambiente e, altresì, l’ambiente influenza il comportamento (Bijou, 1993). Infatti, è ormai generalmente riconosciuto che  i bambini partecipano del loro ambiente anche in primissima età (2-4 anni) e sono attivi nel loro tentativo di apprendere, perché essi “... non reagiscono semplicemente all’ambiente, né formano associazioni tra stimoli e risposte in maniera passiva”. Il bambino non risponde semplicemente al suo contesto ecologico ma cerca di determinare attivamente il “significato” di ogni situazione. Su tale linea Bandura (1989) introduce la nozione di “determinismo reciproco” in riferimento al processo di creazione e di influenza da parte del bambino relativamente al proprio ambiente. L’apprendimento, inteso nel senso più ampio e globale possibile coinvolge altri aspetti dello sviluppo, quali il linguaggio, l’attenzione, il pensiero (e le rappresentazioni concrete nella media fanciullezza, la metacognizione e l’emergente pensiero astratto nella pre-adolescenza (Pepi, 1997)  e il comportamento sociale. Non si tratta di abilità isolate, ma di “...un insieme interrelato di comportamenti”  (Miller, 1987). Il bambino “viene continuamente modificato dalle interazioni con l’ambiente”. Più precisamente i due “soggetti” formano una unità inscindibile, perché, come già detto, il bambino è sempre in interazione dinamica con il suo ambiente funzionale (Bijou, 1993).

 Burchinal et al. ribadiscono l’importanza del ruolo ricoperto dagli insegnanti: sensibilità nell’osservare - e di conseguenza comprendere - gli interessi e i bisogni nel bambino e impiego, affinché le attività di sviluppo risultino appropriate. Secondo gli autori i bambini non ricevono attenzione e interazioni stimolanti sufficienti per incrementare lo sviluppo cognitivo e linguistico (Burchinal, Roberts, Nabors e Bryant, 1996).

In uno studio condotto nel 1989, alcuni ricercatori tentarono di esaminare la relazione ambiente/sviluppo su tre gruppi diversi per etnia, lungo il periodo dei primi tre anni di vita. Mentre lo status sociale non mostrava una consistente relazione con la qualità dell’ambiente familiare o con il processo di sviluppo dei bambini nei tre diversi gruppi, i risultati indicavano una relazione davvero consistente tra ipunteggi ottenuti dalla Home inventory - The Home Observation for Measurement of the Environment Inventory (Home; Caldwell & Bradley, 1984) somministrata ad ogni componente familiare e l’andamento di sviluppo nei bambini, sebbene ci fossero alcune differenze etniche e sociali nella relazione. Cioè, sembra esserci una modesta relazione tra SES (stato socioeconomico) e prestazioni nei test mentali che si incrementa dal primo anno di età fino al terzo.

Il terzo tipo di ambiente più strettamente percepito dal bambino è la città o meglio l’ambiente urbano. Alcune studiose hanno lavorato su un campione di bambini milanesi al fine di evidenziare l’incidenza della zona di residenza urbana sull’elaborazione cognitiva dell’immagine di città, “sulla concettualizzazione e sulla categorizzazione” dell’immagine della città, prendendo in esame due zone cittadine quali una periferica e l’altra centrale. I risultati hanno messo in evidenza una maggiore capacità di cognizione urbana, ovvero un concetto della città più sviluppato nei bambini che vivono nel quartiere centrale rispetto ai bambini di periferia (Gaetti e Venini, 1982) .

Alla stessa conclusione è giunta Sfondrini (1982), evidenziando che “nei bambini si nota una particolare attenzione ai dettagli, un interesse all’individualità ed alla caratteristica delle case, un apprezzamento degli animali ed un confronto con enormi strade e con il traffico che evidenziano un interesse ed una vitalità che non esiste fra gli adulti”. Infatti, la percezione e la rappresentazione della città nel bambino è strettamente correlata all’esperienza diretta: “Il simbolo della città è la casa, che rappresenta il nido, l’immediato, il rifugio”.

Il contesto ambientale deve essere inteso come un insieme dal quale i bambini possono estrarre di volta in volta gli elementi che li interessano.

Fattori di rischio

La scuola rappresenta il secondo costituente dell’ambiente del bambino lungo l’arco di vita. Se nella prima fanciullezza i genitori rappresentano le principali agenzie di rinforzo, nella media fanciullezza si inseriscono, tra queste, anche gli insegnanti (Pepi, 1997). In questa ottica è difficile discernere gli effetti di rischio sociale e quelli di rischio familiare.

A tal proposito Sameroff et al. hanno tentato di dare risposta a quattro quesiti: “se l’intelligenza è correlata ai fattori di rischio ambientale e, se sì, se questa relazione è parzialmente indipendente dallo stato sociale e dallo stato di minoranza razziale, (2) se i rischi contestuali sono parzialmente indipendenti dall’intelligenza materna, (3) se il potere predittivo longitudinale di questi fattori di rischio è parzialmente indipendente dalle precedenti valutazioni dell’intelligenza del bambino, e (4) se ci sono modelli di fattori di rischio che sono maggiormente predittivi rispetto ad altri del risultato (per esempio, se la qualità o quantità dei fattori di rischio costituisce l’aspetto predittivo più importante)”.

Sono stati valutati 26 bambini all’età di 4 e 13 anni, in correlazione ad un punteggio multiplo di rischio ambientale calcolato per ciascun bambino e tenendo conto del numero di condizioni di alto rischio su 10 fattori di rischio: comportamento materno, credo evolutivo materno, ansietà materna, salute mentale materna, livello educativo materno, supporto sociale familiare, grandezza della famiglia, maggiori stressori, occupazione del ruolo di capofamiglia e stato di minorità svantaggiata.

I risultati di questo studio mostrano chiaramente che: “(1) il rischio multiplo era correlato al QI del bambino all’età di 4 e di 13 anni con effetti che si protraggono anche dopo aver controllato SES e razza...; (2) che il QI materno non risponde di tutti questi effetti; (3) che il rischio multiplo era importante nella predizione longitudinale, anche dopo aver precedentemente misurato il livello cognitivo del bambino quale effetto rispondente ... ; (4) che per le famiglie soggette a rischi multipli (per esempio, con 3 o più rischi), il modello di rischio era meno importante dell’ammontare totale del rischio presente nel contesto del bambino”  (Sameroff, Seifer, Baldwin & Baldwin, 1993).

Gorman e Pollit si domandano se la scolarizzazione può compensare gli effetti del rischio precoce. Scopo di questo studio, condotto in un’area rurale del Guatemala nell’arco di 20 anni (1969-77, 1988) su 1400 soggetti tra adolescenti e giovani adulti, era di valutare gli effetti di “una precoce esposizione a fattori di rischio biologici, ambientali, e cognitivi attraverso la performance di un test psicoeducativo... e verificare se questi effetti venivano tamponati dalla partecipazione scolastica”. I risultati dimostrano che l’esposizione ad un accumulo di fattori di rischio durante l’infanzia è associata ad un livello scolastico basso e alle prestazioni nei test durante l’adolescenza. Infine, le analisi hanno rilevato un effetto “tampone” della scolarizzazione per i soggetti esposti ad alti livelli di rischio precoce. Va da sé che la singola scolarizzazione non compensa gli effetti del rischio precoce (Gorman e Pollitt, 1996). Pertanto, negli ultimi vent’anni la letteratura specialistica ha contribuito a delineare i meccanismi e i processi considerati alla base dell’insorgenza di “condotte devianti” in età evolutiva. Si è venuta ad evidenziare la necessità di individuare strategie mirate a ridurre gli effetti di tutti quei fattori contestuali e intraindividuali che prefigurano l’insorgenza di comportamenti antisociali permanenti (Pepi, 1997). Di particolare interesse, poi, è la prospettiva secondo la quale si evidenzia una stretta dipendenza dell’evoluzione dei comportamenti sia dalla particolare organizzazione sociale che dalla capacità individuale di assorbire e fronteggiare particolari situazioni stressanti (resilience). Ma non di meno è stata analizzata l’azione “protettiva” esercitata dai supporti sociali adeguati. I “meccanismi di protezione” hanno una funzione indiretta fondamentale attraverso la loro interazione con i fattori di rischio: occorre, infatti, sviluppare nell’individuo la capacità di resistere e di far fronte alle difficoltà. Questa competenza è fortemente legata all’area della efficacia personale e della valorizzazione del sé (self-efficacy), specie in presenza di ripetute esperienze di insuccesso scolastico che tendono a sviluppare nel bambino-scolaro un basso livello di autostima e di mancanza di fiducia nelle proprie capacità, conseguentemente una bassa attitudine all’apprendimento, tutte condizioni che favoriscono l’abbandono precoce della scuola (Pepi,1997).   

Bibliografia

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